Archivio mensile : Settembre 2014

Batte in Calabria il cuore di Zeus tra mito e scienza: La grotta della Lamia.

Calabria terra dalle mille contraddizioni ma soprattutto terra fantastica tutta da scoprire. Un compendio di attrattive che rendono la Regione unica nel suo genere. In questa Regione però purtroppo non sono né conosciute, né protette, né valorizzate. Situata sull’acroco Aspromontano nel Comune di Montebello Ionico in provincia di Reggio Calabria è ubicata questa spettacolare cavità ipogea.

Per raggiungere questo posto, anche se nascosto, è facilmente raggiungibili. Basta seguire la SS 106 e svoltare per Montebello Jonico, proseguire verso Fossato e da qui verso Lungia.
Giunti alla Chiesetta omonima si procede ancora e si fanno pochi chilometri in salita.
Ad un certo punto anziché procedere verso monte si gira a sinistra. A pochi metri, sulla destra, un cancello in ferro permette l’ingresso verso il luogo delle grotte.
Andando avanti per circa cinquecento metri è possibile incontrare le grotte della Lamia. Fin dall’ 800 il posto venne scandagliato sia da studiosi stranieri ma anche da minerologi Borboniani che in questo luogo ubicarono una miniera di rame sostiene il Carbone Grio, 1877,Le Caverne del Subappennino ed i resti fossili del glaciale in Calabria. Tipografia Romeo, Reggio. Qui tutto è rimasto immutato.

La Lamia è posizionata in una amena vallata immersa nelle acque di torrenti montani, ed era conosciuta già nei secoli scorsi, oggi è possibile accedere e visitare l’enormità dei suoi spazi tramite un sentiero ben collocato e curato. Un ambiente cristallino quasi fatato colpisce il viaggiatore calabro, una serie di pilastri e tozze stalattiti scendono dall’alto, attribuendogli un senso di selvatichezza.

Effettivamente la presenza di tali colonnati e stalattiti è sintomatologia di un continuo lavorio dell’ acqua. Tutto intorno è un tripudio di conchiglie che adornano l’ambiente, il mare era presente in queste terre prima che l’Aspromonte si alzasse. Sulla certezza che, un tempo, la terra fosse interamente sommersa dal mare non ci sono dubbi ma trovarsi in aperta montagna ed avere la possibilità di calpestare la sabbia di un vecchio fondale marino ed accarezzare rocce scolpite dal tempo e le conchiglie che parlano di storia è veramente emozionante.

Qui l’acqua ghiacciata cade a tempo. Una punta di roccia la regala ogni 15 secondi, un’altra ogni 12 ed un’altra ancora ogni 20 così come in tutte le altre. È tutta una musica, semplice e bella.
All’interno, il primo tratto della grotta si presenta alto circa tre metri mentre poi più avanti, per circa cinque metri, si tende ad abbassare fino al punto di vedere queste splendide sculture fondersi col suolo. L’area attualmente occupata da queste rocce calcaree non è eccessiva anche se alcuni sostengono che il percorso e la loro presenza è assai estesa tanto che, scavando ci si immetterebbe in cunicoli che, secondo la teoria di qualche anziano, giungerebbero fino a Motta San Giovanni.

Nel centro infine una grossa “candela” scende verso la terra. La sua forma è assai strana. Allungata e rotondeggiante a tratti sembra essere stata lavorata al tornio. La sua punta sferica guarda a 360 gradi l’intorno tanto da compensare l’interno buio con l’esterna luce. Altri affermano, invece, che le grotte si estendono in profondità fino a giungere il greto del fiume.

La grotta è così definita un labirinto suddiviso da colonnati ricoperti di calcite, dove sonnecchiano indisturbati pipistrelli in letargo. Essendo però il posto immerso nelle campagne della Magna Grecia non si può non fare riferimento al mito e leggenda.

Il nome “lamia” deriva dal greco e Montebello Jonico è terra ellenica, mondo in cui nell’antichità le “Lamie”, secondo la mitologia, altro non erano che figure a metà strada tra l’uomo e l’animale ossia dei veri e propri mostri o meglio obbrobri che incutevano paura sia per l’aspetto che per il loro violento agire.

Le “lamie”, infatti, venivano identificate come rapitrici di bambini e di giovani, molto crudeli tanto che per nutrirsi li divoravano con estrema velocità. Lamia era, infatti, la mitologica e bellissima regina della Libia figlia di Belo, che entrò presto nel cuore di Zeus da cui ebbe molti figli; una discendenza, questa, però invidiata da Era che non sopportando quest’amore scatenò l’incontrollabile odio contro i loro figli uccidendoli tutti ad eccezione di Scilla e Sibilla.

Così, Lamia, travolta dal dolore si trasformò in quello che mai avrebbe voluto essere e si rifugiò nel buio delle grotte per il suo orribile aspetto. Per questa ragione, piace pensare che proprio alla Grotta della Lamia sia rimasto legato il “cuore di Zeus”. In quanto al toponimo, probabilmente i Greci, per il contrasto tra la bellezza e la paura generata dalle grotte, diedero alla località che le ospita il nome di “Lamia” quale ricordo del mostro mitologico.

E la “bocca” del mostro, infatti, la troviamo all’ingresso della cavità; una bocca che, nelle antiche storie tramandate dagli anziani dei paesi di Montebello e di Fossato ionico era in grado di inghiottire intere greggi.

Maria Lombardo
Consigliere Commissione Cultura Cds
Centro Studi e Ricerche
Comitati Due Sicilie.

LA MADONNA DEL PILERIO: La Vergine che salvò Cosenza da peste e terremoto.

«Vergine del Pilerio Madre della Chiesa, Tu sei per noi Sostegno, Aiuto e Speranza
Noi Ti ringraziamo e Ti benediciamo, ma soprattutto noi Ti amiamo. Tu sei la nostra Madre tenerissima, donataci da Cristo sulla Croce, ascolta la preghiera dei tuoi figli. Non permettere Che ci allontaniamo mai da Te. Rafforza in noi la Fede, sostieni la Speranza, ravviva la Carità. Per Te sia lode al Padre, al Figlio e al Santo Spirito, nei secoli dei secoli. Amen. O Madonna del Pilerio, nostra gloriosa Patrona Prega per noi» .

Dalla visione di questa sacra effige custodita nella Cattedrale di Cosenza, appositamente edificata per custodire gelosamente il simulacro dal 1607 per favorire l’afflusso dei pellegrini, si rimane affascinati dalla bellezza della Cattedrale e dalla stupenda effige di questa Vergine col Bambino.

Il nome, con tutta probabilità, deriva dalla parola greca pilos, che vuol dire colonna. Il nome stesso ancora potrebbe essere più antico e derivare dal greco “puleròs”. L’icona dell’XI secolo che si erge nella cappella a Lei dedicata è alta 95x 65. L’iscrizione che compare in latino (Haes noc quam colimus de peste redemit immago prodigium labes denotat orta genius) ci fa comprendere che malgrado la tecnica usata la sacra immagine non è giunta dall’Oriente.

Una sorta di tipo iconografico misto tra Kikkotista e Galaktotrophusa (esempi di immaggini che allattano) tanto per essere chiari. L’immagine sacra si caratterizza per il Bambino che viene nutrito dal seno della Madre e dal velo rosso che elegantemente scende dal capo della Vergine.

Effettivamente i vari rifacimenti compiuti sull’opera nel corso dei secoli hanno permesso a noi di osservare: l’eleganza di un velo rosso che copre la spalla della Vergine. Il vestito marrone e azzurro che ci spiegano l’umanità della Vergine ed inoltre le stelle poste su capo e spalla esprimo la sua perpetua verginità.

Inoltre la corona posta sopra il suo capo simboleggia gli 11 apostoli nel giorno della Pentecoste. Risulta ancora di una bellezza sovrumana il bambino Gesù che è cinto da un nastro rosso nudo in braccio alla madre che lo sta allattando. L’aureola del figlio Divino simboleggia la croce che ci riporta alla futura immolazione di Gesù. Il culto alla Madonna del Pilerio risale all’anno 1576, quando una devastante epidemia di peste si accanì sulla città di Cosenza facendo numerose vittime.
Si narra che un devoto che pregava dinanzi all’antica icona della Madonna posta all’interno del Duomo cittadino, si accorse che sul viso della Madonna si era formato un bubbone di peste. Allertato il Vicario generale dell’epoca, si sparse immediatamente la notizia ed una grande folla si recò ad ammirare con i propri occhi lo strano evento che venne interpretato come volontà della Vergine di accollarsi la malattia per liberare la popolazione.

La regressione della peste nella città, che avvenne nei mesi successivi, venne interpretata dalla città come vero e proprio miracolo.I pellegrinaggi continuarono nel tempo e crebbero di numero, tanto che nel 1603, l’Arcivescovo Mons. Giovan Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l’afflusso dei pellegrini, tolse il quadro dal luogo dove si trovava e lo collocò prima su uno dei pilastri della navata centrale del Duomo, poi sull’altare maggiore ed infine, nel 1607, nella cappella appositamente costruita, dedicata alla Vergine dove ancora oggi si venera.

Il 17 aprile 1607 su richiesta unanime dei cosentini l’Arc. Mons. Costanzo incoronò la Vergine del Pilerio come Regina e Patrona della città. Nel 1783 un violento terremoto si abbatté su Cosenza. Stavolta fu tutta la città a pregare al punto che apparvero dei segni sul viso della Vergine, che sparirono dopo il pericolo.

Il 12 giugno 1836 l’Arc. Mons. Lorenzo Puntillo (1833-1873) fece una seconda incoronazione con corone d’oro e gemme di grande valore. In seguito al terribile terremoto del 12 febbraio 1854 i cosentini chiesero e, l’11 gennaio 1855, ottennero dall’autorità ecclesiastica l’istituzione di una seconda festa, detta del patrocinio, in onore della Vergine da celebrarsi ogni anno il 12 febbraio.

Ed infine nel 1922 una terza incoronazione per poi nel 1943 durante la seconda guerra mondiale si ebbero a Cosenza due spaventosi bombardamenti che deciamrono quasi la città: il 12 aprile ed il 28 agosto del 1943.

Per iniziativa dell’Arc. Mons. Aniello Calcara (1941-1961) il 6 settembre del 1943 il quadro della Madonna fu temporaneamente trasferito nel Convento dei Padri Minori di Pietrafitta con l’intento di proteggerlo.

Maria Lombardo

Brognaturo e le botteghe artigiane: le pipe d’autore.

Siamo ancora nel cuore delle Serre Vibonesi  un tempo come oggi questa terra non smetterà di stupire. Ad ospitarci oggi è Brognaturo adagiato in una fitta e folta vegetazione  a 47 km da Vibo Valentia, il centro montano è famoso a livello internazionale per la radica, che permette la produzione di bellissime pipe d’autore.

Tuttavia la produzione delle pipe nelle Serre affonda le radici in una tradizione millenaria. Dai documenti reperiti ho potuto annotare che la nascita del centro  non è molto antica, ma sulla sua etimologia sono stati impiegati fiumi d’inchiostro.

A proposito dell’origine etimologica del nome, un’altra ipotesi “storica”, ma pur sempre di ipotesi si tratta, su “Brognaturo” è che questi è la derivazione dal vocabolo dialettale “Brogna”: una specie di corno in uso presso i pastori per richiamare il gregge. Ipotesi suffragata anche da alcune note storiche del vescovo Mons. Bruno Tedeschi da Serra San Bruno che descrive Brognaturo come un paese molto antico formato in origine da massari e mandriani.

Già casale della baronia di Santa Caterina, nel 1535, fu venduto col “jus redimendi” (diritto di riscatto) da Giovan Francesco Coclubet ultimo conte e primo marchese di Arena, a Giovan Battista Suriano di Monteleone  il quale, il 12 luglio del medesimo anno, lo restituiva al venditore, ma con gravi difficoltà. Egli infatti, lo aveva, nel frattempo, venduto per 500 ducati a Ferrante Carafa, Conte di Soriano e Duca di Nocera, che, a sua volta, sempre con il diritto di riscatto, lo aveva venduto a Giovan Battista Raveschieri.

Dal 1629 al 1641 fu dei Passarelli, da Catanzaro, indi dei Sersale, da Stilo, fino al 1660, quando passò a Paolo de Santis, che lo tenne fino al 1679, anno in cui ne fece donazione al Convento di S. Domenico di Soriano, nel cui dominio rimase fino all’eversione della feudalità ( 1806).Il terremoto del 1783 vi causò danni valutati a 30 mila ducati. Fu poi danneggiato dal terremoto del 1905.

Per l’ordinamento amministrativo francese del 1806 divenne un Luogo del Governo di Serra; la legge istitutiva dei Comuni, emanata dai Francesi nel 1811, lo riconobbe tale, incluso nel Circondario di Serra, allora istituito, nel dipartimento della Sagra. Nella chiesa Parrocchiale si conserva un gruppo marmoreo cinquecentesco dell’Annunciazione del carrarese G. B. Mazzolo.

Oggi Brognaturo è un piccolo centro di  circa 660 anime che vivono di artigianato come tutta la zona. Considerazioni simili sull’artigianato Serrese possono riguardare, sotto il profilo della rilevanza prettamente artigianale, quella di vimini e canne  (Comuni dell’Alto Mesima) e quella di vasi in terracotte per la conservazione e la cottura dei cibi (Sorianello e Gerocarne).

Impagliatori di sedie ed ombrelli (Stilo),conciapelle e bottai (Bivongi) completano un quadro che soddisfa i gusti sopraffini e le particolari aspettative degli amanti delle finezze del lavoro manuale, esaltate nelle fiere estive che ricordano i fasti del passato.

Le botteghe artigiane di Brognaturo sono adibite alla lavorazione delle pipe, che è una cultura antica e tradizionale mantenuta viva soprattutto ad opera dell’artista/artigiano Grenci, che realizza i suoi capolavori in radica di erica intagliata modellando opere molto apprezzate dagli estimatori di tutto il mondo.

Una tradizione che si tramanda di padre in figlio che con occhio clinico vanno alla ricerca di questa radica tra selve e dirupi. Tuttavia senza la “Dinastia” Grenci l’arte della pipa non avrebbe avuto dei trascorsi  così fruttuosi  e fasti.

Effettivamente la Calabria che è zona ricca di alberi non poteva non essere il posto giusto per far  proliferare una buona attività.Sono le pipe il fiore all’occhiello dell’artigianato locale. La maestria della famiglia Grenci, che opera da oltre quarant’anni, ha reso famosa quest’arte. Le pipe, realizzate con la migliore radice di erica arborea che nasce in questa zona, sono pronte dopo 8-11 anni di stagionatura.

Le venature del legno rivelano la preziosità degli esemplari creati, piccole sculture in miniatura che hanno un valore di mercato molto alto, e vengono vendute in tutto il mondo. La radica che altro non è che la radice di erica, un arbusto che cresce spontaneo sugli altipiani calabresi, che per via del bassissimo contenuto di tannini, che sono i principali responsabili del sapore aspro ed amaro che si percepisce fumando certe pipe, la radica calabrese è considerata la migliore al mondo per qualità.

Erano i cioccaioli che provvedevano a scavare, sulle alture delle Serre, su quelle dello Zomaro e in Aspromonte, la radica che consegnavano sistematicamente all’artigiano, il quale poi provvedeva a scegliere i pezzi più pregiati.

Dopo una breve sosta in una cantina scavata nello scoglio, la radica ancora bagnata veniva lavorata con la lama di una sega circolare ove le sapienti mani del maestro abbozzavano le forme e, scoprivano la parte corticale, che lasciava intravedere le venature.

Quindi si procedeva ad un’accurata selezione dei pezzi più nobili che venivano trasferiti in una caldaia di rame per la bollitura, che durava oltre ventiquattrore di fila.

Quando ormai la bollitura era terminata ed il tutto si era raffreddato gli abbozzi venivano alloggiati in degli scaffali per una lenta stagionatura che durava cinque anni e oltre.

Maria Lombardo
Consigliere Commissione Cultura Cds
Centro Studi e Ricerche
Comitati Due Sicilie

Grotta del Romito Papasidero (CS)

Sapevate che in Calabria si trova uno dei più importanti siti risalenti al Paleolitico superiore, contenente una delle più antiche testimonianze dell'arte preistorica in Italia e una delle più importanti a livello europeo? E' proprio con questa domanda al quanto inusuale che mi sono immersa nello studio di questo graffito dei bovidi risalente pensate un po'...
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